Piccoli equivoci senza importanza

Raccolta di racconti di Antonio Tabucchi

Nell'ambito del Festival in una notte d'estate – percorsi: l'architettura della parola tra città e terra

Nei racconti di Piccoli equivoci senza importanza, che a una prima lettura sembrerebbero avventure esistenziali, ritratti di viaggiatori della vita ironici e disperati, l’apparente s’intona fra il reale e il narrato, o meglio fra l’avventura vissuta e il suo senso, diventa all’improvviso turbamento e sconcerto, come per uno spaesamento epistemologico, una sorta di doppiaggio fuori sincronia, come quando le parole pronunciate non corrispondono ai movimenti delle labbra di chi le pronuncia.

I barocchi amavano gli equivoci. Calderón e altri con lui elevarono l’equivoco a metafora del mondo. Suppongo li animasse la fiducia che il giorno in cui ci desteremo dal sogno di essere vivi, il nostro equivoco terreno sarà finalmente chiarito. Auguro loro di non aver trovato un Equivoco senza appello.

Anch’io parlo di equivoci, ma non credo di amarli; sono piuttosto portato a reperirli. Malintesi, incertezze, comprensioni tardive, inutili rimpianti, ricordi forse ingannevoli, errori sciocchi e irrimediabili: le cose fuori luogo esercitano su di me un’attrazione irresistibile, quasi fosse una vocazione.

Mi potrebbe consolare la convinzione che l’esistenza sia equivoca di per sé e che elargisca equivoci a tutti noi, ma credo che sarebbe un assioma, forse presuntuoso, non molto dissimile dalla metafora barocca.

Di alcuni racconti che qui raccolgo desiderio fornire appena pochi dati concernenti la loro apparizione. La storia intitolata Rebus la rubai una sera del 1975 a Parigi, ed è rimasta sufficientemente a lungo dentro di me da essere restituita in una versione che tradisce sciaguratamente la versione originale. Non avrei niente da obiettare se Gli incanti e Any where out of the world fossero considerati due racconti di fantasmi, nel senso più vasto del termine.; il che non impedisce, naturalmente, che possano essere letti anche in un altro modo. Al primo non è estranea una suggestiva teoria della dottoressa Francoise Dolto, mentre per il secondo sarà forse superfluo specificare che il nume tutelare è Le spleen de Paris di Baudelaire e in particolare il poema in prosa dal cui titolo mi sono impossessato. Il rancore e le nuvole è un racconto realistico. Cinema deve molto a una sera di pioggia, a una piccola stazione della riviera e al volto di un’attrice scomparsa.

Se Tabucchi “ruba” le sue storie dal vissuto, come ha scritto Bernard Comment, allo stesso tempo costruisce un’estetica del frammento collezionando istanti che si manifestano attraverso lampi, intuizioni, epifanie, lasciando al lettore libertà di decifrazione. È proprio secondo l’estetica del frammento, nella grande tradizione di Baudelaire, Benjamin e Nietzsche che Tabucchi apre un mondo “generando scintille e illuminazioni che si riverberano sull’esperienza” (Remo Bodei) e inventa una grammatica narrativa “cinematografica” dove contemporaneità, successione e simultaneità sono usate per smantellare il protocollo della letteratura realista.

con Simeone Latini

Spazio scenico, regia e costumi Simeone Latini

direzione artistica Lelio Lecis

Produzione Akròama Teatro Cagliari

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